Che l'Italia sia un Paese dove la cultura tecnica è inesistente e le cronache giornalistiche sguazzino solo tra tangentari e puttane è un dato di fatto. 

Se prendete un giornale italiano, è tutto un terrorizzare i lettori su quello che di terribile c'è in rete: venditori di pillole letali, hacker che sono la quintessenza del Male, servizi come Skype completamente in mano a narcotrafficanti e mafiosi. Quando sono stati arrestati 4 ragazzini di Anonymous, i media italiani hanno titolato: "smantellata la cellula italiana di Anonymous", con tanto di video al TG1: manco fosse Al Qaida.

Più che le cronache dalla Frontiera Digitale, nuovo avamposto dei diritti umani e delle libertà civili, la copertura mediatica della Rete, in Italia, sembra un bollettino della polizia postale. 

Nel nord Europa, in Inghilterra e in America – realtà avanzate, dove la cultura tecnica è rispettata e produce benessere, progresso sociale e culturale- i giornalisti cercano di capire a fondo la cultura digitale e il suo impatto su diritti umani come la privacy o su risorse fondamentali per la comunità, come il whistleblowing. Ci si sforza di indagare  e capire rivoluzioni come quella di WikiLeaks o  di Anonymous. 

Ma in Italia, no. L'Italia, Paese degli Scilipoti e dei pellegrinaggi alla Madonna di San Luca, banalizza e criminalizza tutto. Noi sì che siamo più furbi e smaliziati degli altri!

L'esempio per antonomasia di come il giornalismo italiano tratta la rivoluzione digitale è stato il linciaggio mediatico di Julian Assange.

Firme che si spacciano per grandi esperti di internet sono arrivate a scrivere che il passato di Julian puzza di spionaggio, perché, se davvero venisse dal mondo hacker e degli attivisti della rete, nella comunità hacker il nome di Assange sarebbe noto, e invece no: tra gli hacker della sua generazione nessuno lo conoscerebbe. Per fortuna, però, il giornalismo vero esiste ancora. E prima di scrivere cazzate e formulare ridicole teorie del complotto, ci sono giornalisti che vanno a vedere con i loro occhi, toccare con le loro mani e indagare con il loro cervello. Uno di quelli che l'ha fatto è Raffi Khatchadourian del migliore giornale del mondo: il New Yorker.

Khatchadourian ha indagato su Assange, scrivendo un fantastico pezzo per il New Yorker:

http://www.newyorker.com/reporting/2010/06/07/100607fa_fact_khatchadourian

Che è venuto fuori? E' venuto fuori che da giovanissimo Assange ha subito un procedimento giudiziario per le sue intrusioni informatiche. Rischiava 10 anni di galera, ma alla fine il giudice ha stabilito che non c'era evidenza di un comportamento di Assange mirato a distruggere sistemi informatici o acquisire illegalmente denaro: le sue incursioni erano un puro piacere intellettuale mirato a capire come entrare nei sistemi e navigare attraverso di essi.

Questa la conclusione del giudice:

“There is just no evidence that there was anything other than sort of intelligent inquisitiveness and the pleasure of being able to—what’s the expression—surf through these various computers.”

La pena a cui è stato condannato Assange, quindi, è stata molto mite, come ha raccontato Khatchadourian, che, per scrivere il suo pezzo, ha parlato con Ken Day, il capo degli investigatori a cui era stato assegnato il caso.

Del passato da hacker di Assange c'è almeno un'altra prova fattuale: il libro 'Underground', scritto da Julian con la ricercatrice Suelette Dreyfus nel lontano 1997: un testo molto amato nell'ambiente hacker e che vi consigliamo di leggere.

Vogliamo sostenere che queste evidenze fattuali siano state fabbricate e che Assange si sia costruito fin dai lontani anni '90 una falsa identità per coprire quella vera, fabbricando documenti giudiziari e libri fasulli? Tutto è possibile, certo. Ma se entriamo in questa logica, allora sono ammissibili le teorie più trash del mondo, come quella che il Papa la notte faccia bagordi con le aliene di Roswell. 

Abbiamo fatto questa lunga parentesi su Julian Assange per denunciare la superficialità del giornalismo italiano, sempre pronto ad alimentare sospetti, timori, chiacchiere, diffamazioni gratuite più che a mettersi a lavorare sodo per verificare i fatti, senza ripetere a pappagallo la versione dei fatti di spioni e sbirri, che vedono il mondo attraverso una lente particolare: quella della disinformazione, i primi, e quella della repressione della criminalità, i secondi.

Oggi, per esempio, sul Corriere c'è un pezzo su BITCOIN: la criptomoneta molto  in voga nell'ambiente dei geek: i talenti del computer.  

http://www.corriere.it/cronache/11_novembre_03/moneta-elettronica-rete_525d18ec-0612-11e1-a74a-dac8530a33df.shtml

Il Corriere arriva a scrivere: "viene usata soprattutto da chi ha qualcosa da nascondere". Una conclusione deprimente, perché dimostra di non aver capito lo spirito libertario alla base di BITCOIN, sviluppata da gente preoccupata per la privacy e un'invenzione che affonda le sue radici nella cultura dei mitici cypherpunks, che non erano delinquenti o narcotrafficanti che sognavano la moneta che non lascia tracce per far sparire i proventi dei loro traffici, ma erano alcune delle migliori menti dell'informatica: da Tim May, a Philipp Zimmermann a John Gilmore.

Ridurre BITCOIN a un mezzo usato da chi qualcosa da nascondere rivela una cultura da celerini, da gente che ha un approccio sbirresco alla rete, esattamente il contrario di quello che la Rete rappresenta in tutto il resto del mondo.